Dove osano le idee? Riflessioni a margine (Calabria alla Fiera del Libro 2013)

salto13

 

“Perché continuiamo a lamentarci delle etichette che ci affibbiano se poi, in ogni occasione utile (quella del Salone del Libro è l’ennesima, ma non certo l’unica occasione persa) facciamo di tutto per rafforzarle e renderle regole?”

Si domanda Paola Bottero nell’ultimo post del suo reportage dedicato al Salone del Libro di quest’anno.

Al Salone del Libro quest’anno non c’ero. L’ho seguito, come molti, attraverso i reportage più o meno istituzionali delle testate locali.

Ne è emerso che:

– Non pare che oltre i battibecchi intraregionali qualcuno si sia filato la presenza calabrese al salone

– La scelta delle soppressate in prima linea non è stata gradita da molti

– Houston: abbiamo un problema. Di identità.

 

Per me il Salone continua a essere Fiera. Così l’ho conosciuto, così continuo a chiamarlo. Fiera del libro, ma fiera.

In una fiera, ognuno porta i prodotti che ha, li espone, li scambia, fissando un prezzo.

Per fissare un prezzo, bisogna capire il valore di quello che si porta. E scegliere quindi i prodotti che possano essere facilmente “vendibili”.

L’identità calabrese è conosciuta per ‘ndrangheta, soppressate e Salerno-Reggio Calabria (incompiuta).

Ma l’identità passa per la rappresentazione, e l’identità, insegna l’antropologia culturale, è il tentativo di naturalizzare degli aspetti che sono dinamici, storici, sociali. Di fermare il tempo.

Molti, in Calabria, protestano perchè non ci stanno ad essere identificati con l’equazione di cui sopra.

Ma la negazione non basta. Per fare passare un messaggio occorre che sia condiviso: non siamo (solo) ‘ndrangheta, ok. E quindi? Quali sono le altre esperienze che ci caratterizzano e da cui si può ripartire?

Unire questo tipo di puntini è un’operazione reticolare. Ma rete significa, seppur partendo da hub che possono esercitare un’influenza maggiore, orizzontalità.

Significa appunto negoziazione, scambio, condivisione.

Quello che su larga scala in Calabria è sempre mancato. Così come è mancata un’introspezione seria (ché non può essere sempre colpa degli altri, l’ambiente in cui si vive è sempre condiviso).

Io questo tipo di introspezione l’ho trovata, in Sicilia, in uno splendido lavoro del prof. Bolognari, “I ragazzi di Von Gloeden“.

Ho scoperto il concetto di “intimità culturale” formulato da Herzfeld:

“il riconoscimento di quegli aspetti dell’identità culturale, considerati motivo di imbarazzo con gli estranei, ma che nondimeno garantiscono ai membri la certezza di una socialità condivisa”

che in Bolognari si trasforma in un concetto utile per capire come, nel meridione italiano,

“non definisce un consenso a elementi culturali dell’identità nazionale, ma dell’identità locale eterodiretta. […] Si tratta di stereotipi che, benchè imposti dall’esterno, vengono incorporati dai membri della comunità locale. La strategia dell’accettazione degli stereotipi dall’esterno per capovolgerne la funzione può essere utile per trovare un comune terreno di comunicazione proprio con l’esterno stesso, anche quando questa auto identificazione dovesse risultare dolorosa”.

Bisogna capire quanto abbiamo introiettato gli stereotipi e quando ci abbiamo marciato su. E capirne il perchè.

Se fa parte di una strategia, se è a breve-medio-lungo termine, quali gli obiettivi, quali i risultati.

Chiamare un brand esterno (sia Mieli, Sgarbi o altri) può aiutare, se questi brand non diventano testimonial e si spendono per la causa (posto che gli “esterni” hanno, volenti o nolenti, sempre quell’equazione in mente)?

O forse sarebbe stato meglio che i “testimoni” del cambiamento diventassero “testimonial”? (la polemica in fondo è questa qui)

Mi chiedo quanto la “sindrome del cameriere” (“si è venuta formando una sindrome comportamentale che tende a enfatizzare gli aspetti esteriori e formali del servire […] nella convinzione che così il cliente si trasforma in preda.[…] La sindrome tende a svalutare qualsiasi cliente in quanto articolo di serie”) e la “sindrome del bambino di albergo” (“una forma di disincanto che s’impossessa di coloro che vedono passare il mondo davanti casa propria e finiscono per assuefarsi alla diversità e alla novità”) appartengano ai calabresi.

Perchè il disincanto qui non riguarda l’assuefazione alla diversità (che anzi viene prontamente emarginata) ma piuttosto l’assuefazione in generale.

Ma se la diversità viene emarginata, come può esserci un dibattito libero? Come possono “osare le idee” ?

E soprattutto: è utile che le idee osino? Perchè l’impressione è che in Calabria non è utile per niente. La cultura come orpello, come passerella. Il sapere che divide. La nozione per farsi i belli. Un ragazzo che legge come un dio o un disadattato.

Se è così, chiudiamo tutto. Ma se leggere non è normale, in Calabria, non lo è nemmeno in Italia.

Rinchiudere con la cortina quello che succede dal Pollino in giù è l’operazione tentata per cercare di identificare (anche qui) una specie di male da isolare, o, al limite, da ignorare.

E quindi non si capisce se l’ignoranza rispetto a quello che è accaduto alla Regione Ospite sia perchè “dinoinonsenefreganientenessuno”  perchè “siamobruttisporchiecattivi” o perchè abbiamo riflettuto esattamente quello che di noi ci si aspettava.

Riflettere su come la Calabria sia lo specchio più o meno deformato di una nazione in cerca di identità non è un compito che spetta solo alla politica. Così come riflettere sulle condizioni che fanno sì che le idee osino.

Se la cultura è il dispositivo per orientarci nel mondo, riflettiamo su quali sono i nostri punti cardinali.

Perchè parlare di mutazione genetica per interpretare un cambiamento che in effetti c’è, è naturalizzare un tratto culturale. E, nonostante le buone intenzioni, sa di Calimero in Avacomelava.

 

 

 

 

5 thoughts on “Dove osano le idee? Riflessioni a margine (Calabria alla Fiera del Libro 2013)

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